10 febbraio - Giorno del Ricordo


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Naufraghi di pace

Intervista a Raoul Pupo, docente di Storia contemporanea all’Università di Trieste g

Raoul Pupo è uno dei massimi promotori alla fine degli anni ’80, del rinnovamento degli studi storici che hanno sollevato il velo sulla tragedia delle foibe e dell’esodo.

L'esodo istriano e' un unicum nella storia del '900? (Mi riferisco ai giganteschi spostamenti forzati di popolazione che segnano estese aree d'Europa al termine del conflitto, realizzati in particolare ai danni delle popolazioni legate ai paesi sconfitti. Un fenomeno dunque congiunto per molti versi alla guerra appena conclusa, di cui eredita i metodi e i tratti violenti dell' "invenzione" del nemico e dell'esclusione dell' "altro", sull'onda di mai sopiti nazionalismi).
Certamente no. L'espulsione di fatto degli italiani dai loro insediamenti storici nei territori alto-adriatici passati a diverso titolo sotto il controllo jugoslavo nel secondo dopoguerra fa parte - con modalità proprie - di un fenomeno amplissimo, quello degli spostamenti forzati di popolazione che hanno segnato estese aree d'Europa al termine del conflitto. Il caso di maggiori dimensioni è stato certamente quello dei tedeschi, ma altri flussi hanno coinvolto ungheresi, polacchi e ucraini. Su scala molto minore, alcuni fenomeni del genere erano già avvenuti dopo la prima guerra mondiale, in relazione alla creazione dei cosiddetti "stati nazionali" (in realtà stati per la nazione) nelle aree precedentemente occupate da imperi pre e multi-nazionali. Certamente però, è stata la seconda guerra mondiale, con gli spostamenti forzati avviati dai nazisti nei territori giunti sotto il loro dominio, a diffondere la convinzione che il problema delle minoranze nazionali potesse venir "risolto" una volta per tutte, in modo da non generare nuovi conflitti, solo trasferendo le minoranze medesime all'interno dei confini degli stati considerati le loro "madrepatrie". Naturalmente, i cittadini da spostare (milioni nel caso dei tedeschi, qualche centinaio di migliaia in quello degli italiani), non erano affatto d'accordo, ma la loro opinione non venne presa in considerazione. Per farli spostare vennero usati vari sistemi: epurazioni selvagge, decreti di espulsione, pressioni ambientali. Per i giuliano dalmati ad essere determinanti furono queste ultime perché - per un complesso di ragioni - a loro danno si creò nelle loro terre di origine passate sotto controllo jugoslavo una situazione di invivibilità. Quando per due volte - dapprima il trattato di pace entrato in vigore il 15 settembre 1947 e poi il memorandum di Londra entrato in vigore il 26 ottobre 1954 - previdero il "diritto di opzione", cioè la possibilità per gli abitanti rimasti "dalla parte sbagliata della frontiera" di trovare rifugio nella loro madrepatria, la quasi totalità degli italiani colse l'occasione per fuggire da una condizione di oppressione intollerabile.

Nel capitolo conclusivo del suo recente libro dedicato a Trieste lei scrive nel parlare del "laboratorio balcanico": «Solo in apparenza si tratta di questioni circoscritte ad un'area periferica del continente, perché i temi che esse propongono con estrema durezza, e cioè quelli relativi all'integrazione delle diversità, costituiscono uno dei principali noccioli problematici della storia europea che ci attende». Ce lo spiega meglio?
Nei decenni passati, fino alla fine del secolo scorso, il grande problema era quello delle integrazioni delle minoranze nazionali. E’ stato un problema la cui soluzione è stata semplicemente fallimentare, nel senso che in quella grandissima fascia che è l’Europa centrale il problema delle minoranze è stato risolto con “la loro eliminazione’. Adesso non si tratta più di integrare persone di diversa lingua o nazionalità, ma persone che vengono più da lontano e sono portatori di differenze che noi percepiamo come più profonde, di religione, di stirpe, e le difficoltà evidentemente sono maggiori. La speranza è che si diano risposte più positive di quanto non si è fatto nel secolo scorso con le minoranze nazionali. Io non sono così ottimista da credere che noi impariamo molto dalle lezioni della storia, ma vedere tutto quello che è successo in tutta la fascia dell’Europa centrale e nella sua appendice balcanica alla fine del secolo scorso dà una serie di amplissimi esempi di tutto quello che non bisogna fare. Forse qualcosa di meglio riusciamo a combinare.

Come vincere la tentazione di confinare "ciascuno a casa sua", che è poi l'atteggiamento culturale e politico che ha percorso tutto il '900 e che ancora perdura, rischiando di compromettere la possibilità di costruzione di uno spazio comune nel quale attribuire cittadinanza ai diritti, alle storie e alla memoria dei gruppi nazionali e/o religiosi originari di zone contese?
Temo che sia un atteggiamento che ha radici profonde, non soltanto legato alle culture novecentesche. Problemi del genere nascono quando ci sono percezioni di minaccia, quando le identità a cui si è abituati cominciano a scricchiolare e si sentono rimesse in discussione. Rimettersi in discussione è difficilissimo, rinunciare ai propri automatismi e alle proprie sicurezze è una delle cose più difficili. Però di fronte a grandi cambiamenti, come possono essere stati quelli di inizio ‘900 e quelli di adesso, la risposta dichiusura non porta da nessuna parte, perché non risolve il problema. Cerca di esorcizzarlo ma crea ulteriori problemi.

Come far sì che questa settima ricorrenza del Giorno del ricordo non sia solo la denuncia dei silenzi del passato e dell'isolamento patito per lunghi decenni dagli esuli d'Istria? L'assunzione di responsabilità di quel passato e' sicuramente importante ma non può essere esaustiva.
La vicenda che noi commemoriamo è la tragedia del passato che merita il massimo del rispetto soprattutto per la sofferenza che ha causato a vite che in parte sono ancora tra noi. Però deve essere, e lo è per quello che è la mia esperienza ,un’ occasione per parlare di tutti i problemi legati a questo, il problema dell’integrazione, il problema delle università, delle minoranze, che sono problemi attualissimi. Non significa ricordare semplicemente quello che è successo e pensare che così non succederà più. In quei termini certamente no, però sono problemi con cui dobbiamo misurarci continuamente. Quindi in realtà non è la commemorazione di qualcosa che è finito e non esiste più. E’ piuttosto un ricondurci al centro dei problemi del presente. (C. T.)