di Maurizio Iorio
Non è un capolavoro, e non ha neanche la pretesa di esserlo, “The promise: the making of Darkness on edge of town”, il documentario sulla genesi del quarto album di Bruce Springsteen, proiettato al Romafilmfestival, presenti il regista Thom Zimny ed il Boss, piombato a Roma per l’occasione. Il dvd fa parte del monumentale boxset “The Promise”(3 cd e 3 dvd), che uscirà il 16 novembre in tutto il mondo, un’ opera magna di rilettura di quello storico album che nel ’78 segnò la rinascita artistica del Boss, bloccato per tre anni da una vertenza legale con il suo manager di allora, e destinato a scomparire, per sua stessa ammissione (“All’epoca bisognava pubblicare due-tre album in due anni, sennò cadevi nel dimenticatoio”).
Il video, il cui regista è da anni archivista di tutto il materiale sonoro e video di Sprinsgsteen, è di fatto un documentario per iniziati, un curiosare dentro lo studio di registrazione durante la gestazione dell’album, che interessa sicuramente i fan, ma che dovrebbe essere consigliato a tutti come manuale di vita. Non è tanto nelle immagini (girate da un amico della band con la classica super 8 dell’epoca, e tenute in naftalina per trent’anni, e montate con i commenti di Springsteen e dei suoi musicisti), che sta il senso dell’operazione, quanto nella parte parlata, nel racconto springsteeniano, nella ricerca dell’identità personale e collettiva, nel senso dell’appartenenza, del proprio lavoro e della filosofia che ne è alla base. “Nei miei dischi racconto la ricerca dell’identità” – dice Springsteen. “Ancora oggi non so chi sono, ed all’epoca mi ponevo delle domande essenziali: da dove vengo, che vuol dire essere figlio, americano, musicista, oggi mi chiedo che vuol dire essere padre. Io dovevo trovare delle storie per raccontare tutto questo, ma sono sempre le storie che scelgono te e non viceversa. In fondo, il lavoro del musicista è quello di riparare, siamo degli addetti alle riparazioni, e per noi la musica era il rimedio a tutte le domande senza risposta”. Lo spirito dei tempi, era quello che il Boss voleva catturare: “dovevamo aspettare, capire quando c’era qualcosa nell’aria, e riprodurlo. Quando salgo su un palco, prima non esiste niente. Poi, un-due-tre-quattro, e succede la magia, parte la prima nota e si crea un mondo di valori condiviso fra noi ed il pubblico che nessuno ti può portare via”.E’ la magia del rock’n roll, la sua forza e la sua debolezza. La musica doveva cambiare il mondo, in realtà ci ha solo aiutato a vivere meglio. I valori, la purezza, l’innocenza, la ricerca dell’identità personale e collettiva, sono da sempre il tratto distintivo dell’opera springsteeniana. Quando il Boss registrò “Darkness”, il rock era in crisi e c’era bisogno di un nuovo messia che prendesse per mano il popolo del rock e lo conducesse nella terra promessa (“The promised land”), e Springsteen arrivò al momento giusto. “Darkness on the edge of town” è un album cupo, duro, “implacabile”, che non fa sconti, che affronta la vita e la guarda dalla parte dei perdenti (“Gli uomini varcano i cancelli con la morte negli occhi e l’odio nel cuore”, canta in “Factory”). Un album della working class e per la working class, scritto da un musicista che a 28 anni era già un uomo e che sapeva già, nonostante le molte domande senza risposte, quale fosse la direzione da prendere.
Le immagini di “The promise” restituiscono appieno il senso dell’album, lo sguardo disincantato ma pieno di compassione per tutti quelli che sono stati ingiustamente condannati dalla vita. Zimny, il regista, ha detto che il suo sguardo, nel montare il materiale, è stato “a metà tra il fan ed il regista”, professionale ma non distaccato. Di fatto, “The promise” non è solo il making of di “Darkness”, ma dell’intero mondo di una generazione di perdenti.