Siamo al cinema, ma è una leggenda del rock la star della giornata. Bruce Springsteen arriva al Festival del Film di Roma per l’anteprima europea di “The Promise: the Making of Darkness on the Edge of Town”, il film diretto da Thom Zimny, collaboratore scenico e archivista personale di Springsteen da dieci anni, che racconta la nascita dell’omonimo album. In sala, invece, tutta l’attenzione è per “The social network”, la storia di Facebook secondo David Fincher. Per il concorso, c’è Toni Servillo protagonista di “Una vita tranquilla” di Claudio Capellini, "Rabbit hole" di John Cameron Mitchell con Nicole Kidman e l’irlandese “Five day shelter” di Ger Leonard. Fuori concorso, “Crime d’amour” di Alain Corneau.
Martedì 2 novembre è il giorno di Julianne Moore, che riceverà il Premio Marc’Aurelio all’attore ed è protagonista di “I ragazzi stanno bene” di Lisa Cholodenko, fuori concorso. In competizione “I fiori di Kirkuk” di Fariborz Kamkari, “The back” di Liu Bingjian e “Little Sparrows” di Yu-Hsiu Camille Chen. Tra gli eventi, l’incontro tra il regista Gabriele Salvatores e lo scrittore Giancarlo De Cataldo e l’omaggio a Suso Cecchi D’Amico. THE SOCIAL NETWORK
di David Fincher, Stati Uniti 2010 (Sony Pictures)
Jesse Eisenberg, Justin Timberlake, Rooney Mara, Andrew Garfield.
Forse non è il caso di scomodare parole come “genio” o “visionario”, ma è un dato di fatto che Mark Zuckerberg con la creazione di Facebook abbia significativamente influenzato la cultura - non solo digitale - moderna, radicalmente modificato il concetto di privacy e globalmente trasformato la vita virtuale delle persone, almeno dei 500 milioni iscritti al social network. Questo film ne racconta la storia.
Una sera di ottobre del 2003 lo studente diciannovenne di Harvard Mark Zuckerber litiga con la sua ragazza. Furioso e ferito come un bambino si chiude in stanza e in poche ore viola il database dell’università, raccoglie le foto di tutte le studentesse e le mette in rete sul sito “facemash”, dove gli utenti possono votare la più bella. Il sito si diffonde come un virus e manda in tilt i server dell’università. Zuckerberg viene accusato di aver violato la sicurezza di Harvard e la privacy delle persone, ma in quello stesso momento diventa un mito. Viene contattato dai gemelli Winklevoss, campioni sportivi e di famiglia benestante, che gli propongono di essere il programmatore del loro sito, un social network degli studenti di Harvard. Mark accetta, ma elabora e migliora l’idea. Si mette in società con Eduardo Saverin, che finanzia la nascita di “thefacebook.com”. Il passo da Harvard al resto del mondo non è lungo. Soprattutto quando nel gioco entra un altro “genio” della rete, quel Sean Parker che qualche tempo prima ha rivoluzionato l’industria e la storia della musica con Napster, il sito peer-to-peer per lo scambio di file musicali. Alla fine del 2005 gli iscritti a Facebook erano oltre 5 milioni e mezzo. Ma di chi è stata veramente l’idea? C’è davvero solo Mark dietro la sua creazione? Zuckerberg viene trascinato in due cause. Gli avvocati devono scoprire la verità. Ma intanto il social network ha già fatto le sue vittime.
Tratto dal libro “The accidental billionaires” di Ben Mezrich, scritto da Aaron Sorkin (“La guerra di Charlie Wilson) “The social network” è diretto con grande mestiere da David Fincher (“Seven”, “Fight Club”, “Zodiac”). In fondo è “solo” la storia di un gruppo di ragazzi che riescono a creare un sito, destinato a diventare il più importante aggregatore sociale del web, tra amicizia, lealtà, tradimenti, gelosie, potere e denaro. Fincher però è bravo ad attingere alla “cupezza” dei suoi lavori migliori e a renderlo quasi un thriller, sfruttando la splendida fotografia di Jeff Cronenweth e la quasi perfetta sceneggiatura di Sorkin, che alterna dialoghi serrati e trovate esilaranti a un linguaggio tecnico per “iniziati”, ma assolutamente necessario e non fastidioso. C’è molto, quasi tutto, di vero nella storia, anche se gli autori dichiarano di non aver mai parlato con Zuckerberg, che ne viene fuori come un ragazzo innamorato della sua creatura, abbastanza anarchico da non pensare troppo ai soldi, fragile e sicurissimo di sé, contrario alla pubblicità perché rovinerebbe la purezza del sito, che dev’essere fico. Uno a cui un giovane avvocato dice: “Mr Zuckerberg, lei non è uno stronzo. Ma fa di tutto per sembrarlo”. E fa sorridere immaginare che quel sito che oggi ha 500 milioni di utenti e vale oltre 25 miliardi di dollari, al quale affidiamo (spesso con troppa leggerezza e ignorante fiducia) pezzi privatissimi della nostra vita, che scatena dibattiti feroci sulla privacy (discussioni in parte leziose: se mi iscrivo vuol dire che voglio mettermi in pubblico, pagandone il “prezzo”), che è diventato il simbolo stesso della socialità moderna sia stato inventato sostanzialmente per una delusione d’amore da un ragazzo con problemi di relazioni sociali. (Sa.Sa)RABBIT HOLE
di John Cameron Mitchell, Usa 2010
Nicole Kidman, Aaron Eckhart, Dianne West, Miles Teller, Tammy Blanchard e Sandra Oh.
In concorso al Festival di Roma, “Rabbit Hole”, film prodotto (Blossom Films) e interpretato da Nicole Kidman. Il film è stato accompagnato da Aaron Eckhart che ha sottolineato quanto all`attrice australiana stia a cuore questo lavoro. “Nicole si è innamorata della piece teatrale di David Lindsay-Abaire (vincitore del Pulitzer, poi sceneggiatore del film) – racconta l’attore - e mi ha chiamato per sapere se volevo interpretare con lei il film. Potevo mai dirle di no?...”. E visto il risultato ha fatto bene perché sia lui che la Kidman danno prova di bravura in questo dramma intimo. A dirigere il film è stato chiamato John Cameron Mitchell.
“Rabbit hole” racconta l`elaborazione del lutto, giorno per giorno, di due genitori che hanno perso il loro bambino in un incidente. Li ritrae nella loro quotidianità di fronte ad un dolore troppo grande per essere espresso e capito dalle persone che li circondano. Il dramma sembra essere ed è solo loro. Otto mesi prima erano una famiglia felice poi un attimo ha cambiato tutta la loro vita. I due restano intrappolati in un labirinto di ricordi, sensi di colpa e rabbia e la pellicola descrive alla perfezione le dinamiche del distacco, della memoria e naturalmente del dolore insopportabile. Cercano aiuto in un gruppo di auto ascolto di genitori che avevano perso i figli, nella famiglia e addirittura provando a parlare con il giovane che ha investito il proprio bambino. Ma si sa che non ci sono ricette in questi casi e il percorso per ognuno è differente. Il viaggio negli inferi, nella ‘la tana del coniglio’ (ci cade Alice per trovarsi in mondo sconosciuto e straordinario dove accadono cose surreali come quel lutto) mano a mano li cambia, sembra portarli verso la rottura ma la vita per loro non è finita. (J.S.E.)
UNA VITA TRANQUILLA
di Claudio Cupellini. Italia, Germania, Francia (2010)
Toni Servillo, Marco D’Amore, Francesco Di Leva, Juliane Khoeler.
Toni Servillo mette la sua splendida faccia di attore al servizio di questo secondo lungometraggio di Cupellini (“Lezioni di cioccolato”), un noir contaminato da sentimenti e attualità.
Rosario Russo fa lo chef in Germania, vicino Francoforte, nell’albergo ristorante che gestisce insieme con la moglie. Ha una vita tranquilla, clienti che lo apprezzano, un aiuto cuoco che è anche il suo migliore amico, una moglie che lo ama, un bellissimo bambino. Sono 12 anni che è lì, di quello che ha fatto prima nessuno sa. Ma qualcuno ricorda, e un giorno d’inverno due ragazzi italiani, con accento campano, arrivano a chiedere di lui. Uno è Edoardo, figlio di un famoso e potente camorrista. L’altro è Diego, e sbatte in faccia a Rosario un passato che è costato dolore e fatica seppellire. I due ragazzi hanno una missione da compiere. Rosario vuole restarne fuori, vuole salvare la sua vita tranquilla. Ma ormai è troppo tardi.
Cupellini passa dalla commedia al dramma senza perdere efficacia. “Una vita tranquilla”, certo, deve molto all’interpretazione di Servillo, di una bravura assoluta in certi passaggi, ma si regge bene anche da solo. Il regista stende un filo di tensione lungo un racconto (scritto prima della cronaca attuale) che in un drammatico quadro generale (la camorra, l’affare dei rifiuti) inserisce un privato dramma esistenziale (il rapporto di un padre coi figli, l’egoismo, l’istinto di sopravvivenza). Qualche ingenuità nel finale, ma per il momento il migliore dei film italiani visti al Festival di Roma. (Sa.Sa.)