Festival del Cinema di Roma


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Aria di Halloween tra vampiri e Dylan Dog

In concorso 'Gangor', 'Las buenas hierbas' e 'Poll'

Si respira aria di Halloween al Festival del film di Roma, dove a mezzanotte verranno proiettati in anteprima mondiale i primi 20 minuti di “Dylan Dog: dead of night” di Kevin Munroe. Ma c’è anche l’inquietante “Let me in” di Matt Reeves, remake del bellissimo “Lasciami entrare” dello svedese Tomas Alfredson.

In concorso il secondo italiano, “Gangor” di Italo Spinelli, in una giornata che al cinema italiano dedica “La scomparsa di Patò” di Rocco Martelliti, tratto dal romanzo di Andrea Camilleri e l’incontro-duetto tra Margherita Buy e Silvio Orlando. Oltre al film fuori concorso “My name is Kahn” di Karan Johar, le altre pellicole in competizione sono “Las buenas hierbas” di Marìa Novaro e “Poll” di Chris Kraus.

Lunedì 1 novembre è la giornata dell’attesissimo “The social network”, il film di David Fincher (“Seven”, “Fight Club”) sulla storia di Facebook e di uno dei suoi creatori, Mark Zuckerberg. La diva, invece, sarà Nicole Kidman, protagonista del film in concorso “Rabbit hole” di Cameron Mitchell. In competizione anche “Golakani Kirkuk” (“I fiori di Kirkuk”) di Fariborz Kamkari e “Bei Man” (“The back”) di Liu Bingjian. Da segnalare, fuori concorso, anche “Crime d’amour” di Alain Corneau.

LET ME IN
di Matt Reeves. Stati Uniti, Regno Unito 2010 (Filmauro)
Chloe Moretz, Kodi Smit-McPhee, Richard Jenkins, Elias Koteas, Cara Buono.

Se avete amato l’originale, il “Lasciami entrare” dello svedese Tomas Alfredson tratto dall’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist, “Let me in”, di quel Matt Reeves autore dell’horror di fantascienza “Cloverfield”, non vi deluderà. Si è scomodato perfino Stephen King per assicurare addirittura che questo film “è un trionfo di genere: non solo un film horror, ma il miglior horror americano degli ultimi 20 anni”.

Non succede mai nulla a Los Alamos, New Mexico, e nessuno mai arriva per rimanerci. Così pensa Owen, 12 anni, una madre apprensiva che si sta separando dal padre, solo a giocare nel cortile di casa, solo a scuola e vittima dei prepotenti. Poi una notte, di nascosto, arriva Abby. E’ bella. Ha 12 anni come lui, più o meno. Va sempre scalza, anche sulla neve, ha uno strano odore e gli dice subito che non potranno mai diventare amici. Ma Owen è dolce, è paziente. E Abby, a parte il padre, è sola come lui. La bambina diventa il pensiero più bello di Owen, che nemmeno di accorge che da quando Abby è arrivata a Los Alamos le persone hanno cominciato a sparire e a morire in modi orrendi. “Non sono una ragazza”, continua a dire Abby a Owen, quasi per difenderlo. Solo quando la vede bere sangue Owen capirà. Ma ormai non ha paura di lei, e questo può essere ancora più pericoloso.

“Let me in”, con il quale torna alla produzione dopo oltre 30 anni la Hammer, leggendario studio inglese specializzato nell’horror tra la metà degli anni ’50 e la fine dei ’70, riprende lo stile del racconto e del film originale. C’è una fotografia fredda e azzurra, atmosfere rarefatte, primi piani e silenzi, tensione e spavento costruiti col racconto più che con effetti e rumori. Ha anche, purtroppo, un’inevitabile impronta ‘made in Usa’, probabilmente pensando a un pubblico adolescente non aduso alle finezze di pensiero. Ma resta un ottimo film di genere con elementi importanti che vanno oltre l’horror. E’ anche, infatti, un film sul passaggio traumatico – qui accentuato dalla particolarità dei personaggi – all’adolescenza, quel momento in cui sembra di essere da soli contro il mondo (significativo che per tutto il film non si veda mai il volto della madre di Owen). E c’è un significativo riferimento storico e politico, quando si intravede in televisione il celebre discorso di Ronald Reagan sull’Impero del Male, dove sostanzialmente il presidente sosteneva che il male era qualcosa che stava fuori dall’America e dalle tranquille case dei suoi cittadini. Sarà un ulteriore trauma per Owen realizzare che non è così. (Sa.Sa.)

GANGOR
di Italo Spinelli, Italia - India 2010
Adil Hussain, Samrat Chakrabarti, Priyanka Bose, Tillotama Shome.

Al Festival si parla ancora di donne e di violenza. Nel caso di “Gangor” viene raccontata la storia di una giovane che vive in una zona povera dell’India, il distretto di Purulia dove la popolazione è tribale. In questo territorio le donne sono lavoratrici stagionali soprattutto nell’edilizia (trasportano mattoni), parlano un dialetto molto diverso dalla lingua bengalese e sono oggetto di soprusi.

Il film di Italo Spinelli è tratto da un racconto della scrittrice bengalese Mahasweta Devi, intitolato “Dietro il corsetto”. Un fotoreporter, Upin, viene inviato nel Bengala occidentale per un reportage sulle violenze subite dalle donne tribali. Mentre fotografa un gruppo di indigene al lavoro vede Gangor, una giovane che sta allattando il suo bambino ed immortala l’immagine facendo vedere il seno. La foto viene pubblicata dal giornale in prima pagina e da quel momento la vita di Gangor cambia drammaticamente. E lui, con il suo lavoro, diventa, senza volerlo, un strumento della violenza che avrebbe voluto fermare. L’intenzione del lavoro di Spinelli è simile a quella del fotoreporter protagonista della pellicola: rendere visibile la condizione di queste donne che ancora oggi vivono in una società primitiva. In questo senso il film è interessante come specchio di una parte di mondo. Meno convincente lo sviluppo della storia e la descrizione dei caratteri. I personaggi restano restano sospesi verso un finale poco convincente.

“Gangor” che è una produzione italo-indiana, corre il rischio censura in India. Lo ha denunciato in una conferenza stampa la scrittrice indiana, l'ottantaquattrenne Mahasweta Devi: ''Se questo film viene bloccato dalla censura andremo a New Delhi''. Anche il regista ha espresso molti timori sull'accoglienza in India di questo film che ancora non ha una distribuzione neppure in Italia: ''I fondamentalisti indù potrebbero reagire in modo violento. Certo è un film controverso per la nudità, in India poco accettata, ma c'è anche un pubblico indiano pronto per storie simili”. (J.S.E.)

LAS BUENAS HIERBAS
di Marìa Novaro, Messico 2010 (Latinofusion)
Úrsula Pruneda Ofelia Medina Ana Ofelia Murguía Míriam Balderas Cosmo González Muñoz Gabino Rodríguez.

Né ragione né “magia” aiutano di fronte al dolore e alla fine della vita. A Città del Messico Dalia (Pruneda) vive col figlioletto Cosmo, lavora in una radio e colleziona parole prendendo appunti sulla vita. Sua madre Lala (Medina) si occupa del giardino botanico dell’università, è una etno-botanica, studiosa tra scienza e psicologia delle conoscenze ancestrali dell’erboristeria messicana, e colleziona piante. Come la figlia, vive separata dal marito. Ma all’improvviso il suo cervello comincia ad addormentarsi, precipitando velocemente nell’abisso dell’Alzhaimer, che spegne pensieri, ricordi, emozioni. Fa appena in tempo a consegnare a sua figlia le sue ultime ricerche sui rimedi naturali che, secondo la tradizione precolombiana, curano l’anima dell’uomo. Dalia passa presto dalla sorpresa alla speranza alla disperazione, e proprio mentre legge gli appunti della madre sulle piante che aiutano a vivere meglio, la vede sprofondare sempre più lontano dalla vita. Dovrà prendere una decisione, sapendo che non esiste alcuna “erba buona” che possa curare la tristezza di quel momento.

“Las buenas hierbas”, che ha vinto numerosi premi in Sudamerica, è il quinto film di Maria Novaro (“Danzòn”, “Sin dejar huella”), regista e sociologa. E’ un film quasi completamente femminile (oltre alle protagoniste, bella la figura della vicina di casa Blanquita, anziana donna che convive col ricordo e il fantasma della nipote morta anni prima), dove gli uomini sono di contorno, quando non proprio inutili. Le donne. Vere custodi della memoria e degli affetti, messe di fronte allo sgretolarsi della prima e alla disperazione dei secondi. Affascinante, poi, il percorso nell’universo delle piante: ce n’è una per ogni problema, quasi per ogni emozione. Il film è girato (e la storia è raccontata) con delicatezza, quasi trattenendo il fiato per essere ospiti in un privato troppo doloroso. Risolto forse un po’ frettolosamente, quasi a volerne cancellare la sofferenza. Niente fronzoli, sta tutto nell’interpretazione delle attrici: Pruneda ha già vinto un premio, Medina lo meriterebbe. (Sa. Sa.)