di Carla Toffoletti
Perché voi giornalisti usate in modo così superficiale l’aggettivo schizofrenico, per esempio quando dite “la politica è schizofrenica “, senza rendervi conto dell’impatto che la parola usata in questo modo ha sulle famiglie di coloro che vivono la schizofrenia in prima persona? Capita che l’informazione faccia delle vittime. Succede ai soggetti più deboli, spesso persone con disturbi mentali, vittime di linguaggi sminuenti| (”psicolabili”) o di approssimazioni.
A trentadue anni dalla storica riforma che ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia, a cinquant’anni dall’”assemblea di Gorizia”, in cui Franco Basaglia restituiva dignità di persona, di pensiero e di parola ai pazienti ricoverati in manicomio, le persone con l’esperienza del disturbo mentale tornano a essere attori nel primo convegno nazionale ideato, curato e partecipato da loro a Trieste. “Impazzire si può”, una quattro giorni sulla “questione della guarigione, ovvero sulla possibilità individuale di farcela, di promuovere e sostenere percorsi individuali di ripresa e di emancipazione dall’esperienza diretta della malattia.
Al Parco San Giovanni, oggi sede del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste si alternano fino al 24 giugno incontri e sessioni di lavoro, presentazioni di libri e happening e si è parlato anche della Carta di Trieste, primo codice etico per giornalisti che trattano notizie concernenti cittadini con disturbo mentale e questioni legate alla salute mentale in generale.
E’ Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, presente all’incontro, a spiegarci il valore di una Carta che, alla stregua delle Carta di Treviso a tutela dei minori e della Carta di Roma contro la discriminazione degli immigrati, cambierà il linguaggio mediatico in tema di salute mentale. Nel documento si spiega che vanno evitati termini giuridici approssimativi o interpretazioni pietistiche, va tutelata la privatezza e promosso il racconto di ''esperienze positive improntate alla speranza''. Attenzione particolare viene dedicata ai casi di suicidi. Infine, la Carta di Trieste evidenzia l'importanza delle parole scelte per descrivere le persone con un problema di salute mentale: non dunque, ad esempio, ''depressa'', bensì' ''donna che soffre di depressione''.A chiederlo ancora una volta sono loro: “Voi con due parole ci potete uccidere. Noi non siamo la crisi! “.E’ il grido di allarme che Madia Marangi lancia agli operatori dell’informazione. Madia vive a Martina Franca, Taranto, ed è presidente dell’associazione “Gabbiano” , un gruppo di auto-aiuto. Da anni vive in prima persona il disagio del disturbo mentale.“C’è un accanimento da parte vostra -spiega- a fornire a chi vive il disagio un’immagine di ‘impossibilità’.Abbiamo una grossa difficoltà a comunicare con voi. Dobbiamo renderci interessanti”. A raccogliere la palla il presidente della Fnsi.
Roberto Natale che cos’è la Carta di Trieste?
“E’ un calcio d’inizio. Stiamo cominciando un percorso, una riflessione tra operatori della salute mentale e giornalisti , per un’informazione più rispettosa dei soggetti di cui parla anche nel campo della salute mentale. Un’informazione che usi le parole in modo appropriato, che si renda conto delle conseguenze che parole sbagliate possono provocare, che si preoccupi di fare formazione nella categorie per costruire leve di giornalisti che su questi temi abbiano un’attenzione diversa.
Nell’ultima edizione, pubblicata pochi mesi fa, dei quattro volumi “Studiare da giornalisa”, testo base per passare l’esame da professionista, c’è un approfondimento sulla Carta di Roma. Oggi in Italia chi fa l’esame professionale deve ragionare e studiare anche su un’informazione corretta in termini di migrazione. Anche la Carta di Trieste entrerà nella vita quotidiana delle redazioni?
Ci siamo resi conto che quello della formazione, per quanto sia difficile , profondo, lungo, è un lavoro ineludibile. Serve un confronto costante con gli operatori che lavorano giorno per giorno sul disagio mentale in modo da far entrare questi temi nella preparazione dei nuovi giornalisti. Uno degli obiettivi è ottenere che questi temi entrino a far parte dei testi che i giornalisti studiano per diventare professionisti. Oggi il giornalismo sta diventando un titolazione compulsiva. Si fa solo sintesi. La comunicazione è violenta e superficiale, Un certo modo di fare informazione può fare lo stigma. A ricordarcelo sempre Madia: “Noi non siamo la malattia. Siamo persone che dietro hanno una storia, e vogliamo essere raccontati nella nostra totalità. Dovete imparare ad ascoltarci. Siamo stufi di subire l’informazione”. Si tratta di superare gli stereotipi che spesso caratterizzano il linguaggio dei media nei confronti di chi vive in prima persona problemi di salute mentale. Spesso per descrivere situazioni e fatti di cronaca si usano termini come 'psicolabile' e 'squilibrato'. E le parole diventano trappole, nel mondo dell'informazione, gabbie dentro le quali si rinchiudono fatti e persone.Ecco allora che la Carta di Roma può diventare una carta per un “giornalismo dalla speranza”,