di Raffaella Miliacca
Una perdita è spesso l’occasione per ritrovarsi e per Lorenzo la morte del padre sembra essere proprio questo. Per lui e Martina, Leonardo è stato un genitore affettuoso, eppure sfuggente, diviso tra il gioco, le donne e gli affetti. La sua improvvisa scomparsa ravviva in Lorenzo un timore e un interrogativo: “Sono come lui?”
La veglia per il padre, nella casa dell’infanzia, riaccende ricordi, favorisce rincontri, suscita rimpianti. Da qui comincia il romanzo di Matteo Nucci, “Sono comuni le cose degli amici”, (ed. Ponte alla Grazie), candidato al Premio Strega.
Perdita, solitudine, amicizia, sono i temi che si rincorrono nel racconto. Tra segreti e qualche bugia, Lorenzo cerca di capire chi era davvero suo padre, in un percorso che lo porta a confrontarsi anche con le proprie scelte. Una ricerca, un’inquietudine che cresce di pagina in pagina, muovendosi tra luoghi, Roma e la Grecia, e persone, soprattutto donne, nei quali Lorenzo cerca la strada per quelle verità che però appaiono sempre sfuggenti. E poi, sempre, lo accompagna il rimpianto per un amico perduto. Matteo Nucci ha scritto saggi su filosofi greci, Empedocle e Platone, e racconti. Questo è il suo primo romanzo.
Cosa l’ha spinto a misurarsi con un tipo di scrittura diverso?
Penso che la scrittura sia un mestiere, afferma, una forma di artigianato. Il romanzo è semplicemente un artigianato che implica un livello di attenzione diverso da quello di un racconto, un’aspettativa diversa, oltre che altri strumenti narrativi. Avevo già scritto un romanzo quando ero ragazzino. Era di una noia mostruosa. Mi ci sono nuovamente dedicato quando ho pensato di aver maturato un nuovo modo di scrivere, negli ultimi dieci anni, e sulla spinta di persone che confidavano sulla mia capacità di farlo. Poi, da un punto di vista narrativo, c’è un modo di lavorare che è più a lungo termine. Quindi, se in un racconto un personaggio viene fuori in una pagina, in un romanzo può venire fuori in trenta pagine. Questo implica una padronanza dei mezzi narrativi un po’ più solida, che io credo di aver raggiunto quando ho scritto una serie di racconti.
Il titolo del libro è una frase tratta dal “Fedro” di Platone. Perché questa scelta? Racchiude interamente il senso il romanzo?
No, però è abbastanza ambiguo per tendere a racchiudere tutto. L’ambiguità sta nell’interpretazione delle cose che sono comuni agli amici. Nel greco antico il neutro plurale può poter dire tutto, in quelle ‘cose’ puoi metterci tanto. Quella frase è un detto popolare e gli stessi greci, interpretando il detto, in quelle cose ce ne mettono tante, i vizi, le virtù, le ricchezze, le donne. Questa ambiguità permette di raccontare i vari livelli su cui lavora il romanzo. Quella degli amici è una delle questioni narrate. Poi, mi piaceva per il debito che ho con Platone e perché sembra quasi un verso.
Procedendo nella lettura cresce un senso di attesa che però sembra non risolversi. Tante domande restano senza risposta, su tutto aleggia un senso di irrisolto. E’ così solo per il protagonista o anche per lei?
Credo che sia così per tutti. Credo che le cose non si risolvano mai ed è bene che sia così. La cosa migliore che ci è data dalla nostra cultura occidentale è che non si afferma mai una verità. O meglio, ci sono periodi in cui si tenta di affermare una verità, casi in cui si espropria la democrazia, come del resto facevano anche gli stessi Ateniesi. Però, per fortuna, c’è sempre il dubbio. Non c’è mai niente di concluso, l’importante è riaprire sempre le questioni. Nel libro è un po’ diverso, perché ho creato una forma in cui non c’è mai un’esplosione. Questo rientra anche nella mia concezione del romanzo, perché credo che debba impegnare il lettore, tenerlo stretto a un groviglio complicato, catturarlo.
Nel libro, accanto a Lorenzo, si muovono diverse donne, la sorella, la madre, la ex moglie, la nuova compagna. Figure che sembrano un po’ marginali, ma che in realtà sono quelle che poi rompono gli equilibri, che spingono Lorenzo a mettersi in discussione, a cercare se stesso, il padre, a ritrovare gli amici perduti.
Esatto, quindi non sono poi tanto marginali. In realtà sono più forti. In ogni parte del romanzo c’è una figura che per Lorenzo fa scattare una scelta. Nella seconda parte è Sara, la ragazza che incontra per caso, con la sua vitalità, con la sua ingenuità. E poi, il racconto sui vecchi greci dell’isola che un po’ gli dà la spinta a cambiare.