Economia


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Il lavoro prima della finanza

La crisi non è finita e la disoccupazione crescerà ancora. Intervista all’economista Paolo Leon v

di Elisabetta Tanini

Il significato del primo maggio in questo 2010 segnato dalla crisi economica, con l’Europa che rischia di essere travolta dall’instabilità finanziaria della Grecia.
Ci sono due elementi da distinguere: ciò che questo primo maggio ci insegna e ciò che, invece, ci dovrebbe insegnare. Dalla crisi, che non è finita come dimostra il caso della Grecia , dovremmo aver capito l’importanza del lavoro, che viene prima del capitale o della finanza, perché è alla base della convivenza civile e della ricchezza di un paese. La realtà ci dice, invece, che questa lezione non è stata colta dagli stati dell’Ue. Il governo di Atene sta tentando di risanare il debito intervenendo con una politica di austerità che sacrifica i diritti dei lavoratori. Non si possono migliorare i conti perdendo, invece, lavoro e reddito.

Secondo l’Istat il tasso di disoccupazione in Italia è salito nel 2009 al 7,8%. Meno della media europea, in Spagna la disoccupazione ha toccato il 20%, con 4,6 milioni di disoccupati. Abbiamo raggiunto il picco massimo o c’è il rischio che l’emorragia di posti di lavoro persi continui.
ll livello indicato dall’Istat è ancora basso: se si aggiungono le persone in cerca di lavoro e lavoratori scoraggiati si arriva al 10%. Se poi si tiene conto della sotto occupazione, cioè le persone che sono utilizzate meno rispetto alle loro capacità, allora si arriva al 20-30% E’ drammatico. Paradossalmente con la crisi è venuto anche a mancare il lavoro in nero, che consentiva a molte famiglie di andare avanti.

Secondo il ministro del Lavoro, Sacconi, il nostro Paese ha retto grazie agli ammortizzatori sociali. Oltre 914 milioni le ore di cassa integrazione autorizzate nel 2009.
Gli ammortizzatori sono stati un intervento importante ma, sono serviti solo ad alleviare la situazione. Serve una politica concreta di uscita dalla crisi. Si doveva intervenire sulla spesa pubblica.

Ma noi abbiamo un debito pubblico molto alto e i nostri conti sono da tempo sotto la lente dell’Ue, che ci invita a rispettare i parametri di Maastricht
E’ vero. La crisi, però, ha ridotto il nostro divario con gli altri Paesi Ue, il nostro deficit corrente lo scorso anno ha superato il 6%, meno di Francia e Germania. C’era margine per una politica di reflazione, ciò spendere in modo che gli effetti sul Pil e l’occupazione siano massimi. Gli incentivi per l’acquisto degli elettrodomestici e motorini, ad esempio, creano un aumento provvisorio della domanda che non sempre si riflette sull’occupazione. Le aziende tendono, infatti, a produrre di più utilizzando i lavoratori che già hanno ricorrendo agli straordinari e non facendo nuove assunzioni. Se la crisi dura più degli incentivi allora sarà più grave. Servono una serie di interventi magari puntando sulla rivoluzione verde, sui rifiuti. Si possono anche finanziare i Comuni per spese di manutenzione che rimettono in moto il comparto delle edilizia.

Servono, insomma, interventi Keynesiani, ma il caso della Grecia spaventa e tutti i governi sono cauti nell’intervenire visto anche cosa è successo con gli aiuti economici.
Quello che sta succedendo dimostra che le istituzioni europee sono inesistenti La Bce doveva intervenire prima. Se bisogna ricorrere agli auti del Fondo Monetario Internazionale vuol dire che la comunità europea non esiste: i paesi si stanno muovendo come un usuraio.

Il nostro mercato del lavoro in passato era molto rigido. Ora, però, tante delle nuove forme contrattuali rischiano di penalizzare i giovani lasciandoli senza tutele. Cosa si è sbagliato nel riformare il mercato del lavoro?
Sì, prima c’era una grande rigidità. Negli ultimi anni nel nostro Paese l‘occupazione è cresciuta, ma è precaria. Gli errori sono iniziati con gli accordi del ’93 tra governo e sindacati. Si sono creati posti di lavoro che valgono meno. Cioè è successo anche con gli immigrati; da noi questi lavoratori vengono pagati con un reddito di lavoro poco superiore a quello dei paesi di origine. E’ una mancanza di imprese e sindacati. Uno sbaglio che ha generato divisioni: spesso accade che lavoratori precari all’interno di una stessa azienda si facciano concorrenza con gli immigrati. Così s’innesca solo una guerra tra poveri.

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