Festival del giornalismo


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Come raccontare la guerra

Un dibattito tra chi lavora sul campo embedded_giornalista_296

di Luca Garosi

La prima volta fu il Vietnam. Nel 1965 il teatro di guerra entra negli obiettivi delle telecamere dei reporter e da lì nelle case degli americani e del resto del mondo. Con la guerra del Golfo del 1991, le immagini delle cronache sono trasmesse in diretta dai luoghi del conflitto alle redazioni. Rimarranno nella storia le immagini notturne di Peter Arnett per la CNN con Baghdad illuminata a giorno da razzi verdi.

In questa storia dei conflitti e dell’informazione sono arrivati poi i giornalisti “embedded”. Embedded letteralmente significa “incastrato, incassato”, ed è la situazione del reporter che segue direttamente le truppe durante le missioni di guerra. Molti dubitano che un giornalista “embedded” sia libero di parlare di tutto ciò che vede. Allora forse è meglio scegliere altre fonti, più dirette. Oggi dove non arrivano gli inviati, spesso vincolati da regole editoriali, ci sono i “reporter della rete” che a volte riescono a mostrare la verità, anche quando può risultare scomoda.

Una situazione che comporta, però, molti rischi e pericoli: l’informazione senza regole può aiutare a raccontare la realtà senza filtri, ma può provocare anche cortocircuiti incontrollabili.

Sul rapporto tra guerra e informazione si è dibattuto nel convegno sul “Giornalismo di guerra” che si è svolto a Perugia nella seconda giornata del Festival del giornalismo. A discutere con i giornalisti e con i molti giovani che hanno affollato la sala c’era il generale Massimo Fogari, capo Ufficio Pubblica Informazione dello Stato Maggiore della Difesa. Per il generale la presenza di giornalisti durante le missioni militari è un vantaggio sia per i media sia per l’esercito. Una realtà “che esiste dal 2003 – ha spiegato Fogari - ma che in Italia è stata codificata soltanto nel luglio scorso”. Da quella data anche i giornalisti italiani possono vivere in prima linea accanto ai soldati, comunque “all’interno di vincoli precisi per evitare di mettere in pericolo il successo dell’operazione o l’incolumità delle persone”.

Qualcuno parla di vincoli che equivalgono a una specie di censura preventiva. Tuttavia Gianluca Ales, giornalista di SkyTg24, spiega che spesso per l’inviato di guerra questa è l’unica opportunità che ha per mostrare al mondo stralci di questa realtà. “La nostra sarà sempre una visione parziale – sottolinea Ales -, specie in Italia dove la guerra, nella sua crudezza, è sempre una cattiva notizia. Ma noi raccontiamo i soldati, la loro vita giorno per giorno”.

Per Oliviero Bergamini, inviato del Tg3, sono due le regole fondamentali da seguire nelle zone dei conflitti: “Trovare contatti affidabili, cioè un traduttore e uno stringer (una specie di factotum) esperto del posto, e tornare, perché la prima volta è sempre difficile afferrare una realtà così diversa dalla nostra”.

Ma è possibile raccontare la verità soprattutto quando si racconta un conflitto? Forse aveva ragione lo scrittore inglese Arthur Ponsonby: “Quando si dichiara guerra, la prima vittima è sempre la verità”.