Aumentano in Europa le iniziative tese a vietare l’uso del velo islamico, burqa e niqab in particolare, nei luoghi pubblici. Ultima in ordine di tempo quella approvata a fine marzo in Belgio, dalla commissione Affari Interni della Camera.
In Francia, il velo islamico è vietato nelle scuole dal 2004, insieme a tutti gli altri simboli di appartenenza religiosa. Mentre di recente il Consiglio di Stato ha respinto un provvedimento che prevedeva il divieto assoluto e generalizzato del burqa. Vietato in quanto simbolo religioso, per ragioni di ordine pubblico e sicurezza, o perché lesivo della dignità della donna, il velo islamico fa comunque discutere, anche se in Italia il dibattito si accende più sulla scia dei provvedimenti adottati all’estero che sulla reale necessità di disciplinare un uso, un costume che da noi non è affatto diffuso. Se, infatti, è ormai abbastanza frequente incontrare per le strade, nei supermercati, nelle scuole, donne musulmane con il capo velato, è piuttosto raro incontrarne con il burqa, indumento che copre dalla testa ai piedi e che ha solo una griglia di tessuto sul viso, o il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi.
A portare alla ribalta la questione, ci pensa ogni tanto un’ordinanza anti-burqa di qualche sindaco, che si appella a ragioni di ordine pubblico per l’impossibilità d’identificare le persone così coperte. Iniziative però fermate dai prefetti e dal Viminale perché la materia non è di competenza locale.
In Italia, una legge del 1975, nata in funzione antiterrorismo, impone la riconoscibilità della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico, vietando l’uso di caschi o quant’altro copra il volto. E’ a partire da questa che si dibatte sulla possibilità di vietare o meno il burqa, oscillando tra le proposte di chi vuole sanzionare il velo integrale per motivi di ordine pubblico e chi vuole invece tutelarne l’uso per ragioni di natura religiosa e nel rispetto delle libertà individuali. Un dibattito che agita in maniera trasversale gli schieramenti politici, muovendosi tra questioni di sicurezza pubblica e questioni di principio, individuando inoltre in questi indumenti uno strumento di sottomissione della donna. Agire per legge, secondo alcuni, può agevolare un processo di emancipazione.