Festival del giornalismo


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Ma il limite quale è?

Un dibattito su cosa sia corretto mostrare al pubblico fotografo_296

di Luca Garosi

Quali immagini si possono pubblicare sui giornali? E’ giusto far vedere tutta la realtà ai lettori dei giornali e ai telespettatori nelle trasmissioni televisive anche se questa è molto dura? C’è un limite oltre il quale non si deve andare?
A queste domande hanno risposto molti dei protagonisti dell’informazione in un dibattito durante la prima giornata del Festival di giornalismo di Perugia.

“Le regole ci sono – ha spiegato il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca - . Non bisogna indugiare in particolari scabrosi, deve emergere la notizia, con i limiti del buongusto che però attengono alla coscienza”.

Pier Paolo Cito dell’agenzia fotografica Associated Press ha raccontato la sua esperienza sul campo sottolineando come la foto sia “il risultato di un processo che comincia molto prima che venga scatatta”. Lo scopo – speiga Cito – è quello di rendere il più possibile quello che sta accadendo, il fotografo deve far capire cosa sta succedendo in quel momento.

“Non c’è bisogno di soffermarsi sui particolari dice ancora il fotoreporter dell’Ap -, ma in alcuni casi è difficile evitare certe cose, ma c’è sempre attenzione a non eccedere. Si scelgono elementi emblematici per dare un’idea chiara di quello che succede senza indugiare nel sangue”.

Il direttore del Riformista, Antonio Polito, ha fatto la distinzione tra la realtà e la percezione della realtà che è data dalla mediazione giornalistica. Poi si è soffermato su alcuni tabù tipici del mondo occidentale, ma che in altre culture non vengono ritenuti tali. Come ad esempio quello dell'integrità del corpo umano, che per noi è un valore mentre non lo è per i terroristi.  

Il direttore del Riformista ha parlato anche di foto che possono essere “costruite” perché devono fare effetto: come, ad esempio, la foto simbolo dell’Intifada palestinese, il ragazzo che lancia la pietra contro il carro armato. E’ diventata un simbolo, è la ribellione del singolo piccolo e debole contro il forte. Nell’ufficio del premier palestinese si vede la stessa foto scattata dall’altra parte: c’è il ragazzo con dietro i giornalisti con i teleobiettivi. I due lati della foto raccontano storie diverse.

Di buon gusto “preventivo” ha parlato Gianfranco Botta, telecineoperatore del TG3 raccontando della sua esperienza dopo il terremoto di Haiti. Dopo poche ore dalla tragedia si è aggirato tra le strade dell'isola e intorno a sè vedeva solo cadaveri. Molte delle cose che ha visto non le ha documentate.

Poi la riflessione si è spostata su Internet e sulla enorme quantità di immagini anche molto cruente che veicola la rete. L’anno scorso una bambina di 10 anni – è stato ricordato durante il convegno - è rimasta schiacciata sotto lo scuolabus. Le immagini dei compagni fatte con il telefonino sonon poi state pubblicate su YouTube. Sono foto molto dure accessibili a tutti, mentre in televisione immagini così forti non si vedono più.

Tuttavia - è stato notato durante il convegno - sono immagini che fanno arrivare immediatamente il messaggio, ma poi questo scompare molto velocemente. Ad esempio come è avvenuto con il video della morte di Neda, la ragazza iraniana uccisa a Teheran diventata il simbolo della rivolta nel suo Paese.

Alla fine del dibattito non si è stabilito quale sia il limite e se questo si sia spostato negli ultimi anni. Forse dipende dal momento storico e dalla vicenda che si deve raccontare. Come è successo nel 1972: una bambina corre disperata in mezzo alla strada, è nuda, ustionata dal napalm. Siamo a circa quaranta chilometri da Saigon.

L’immagine è scattata da Nick Ut, fotografo dell'Associated Press. Un'immagine di straordinaria forza espressiva che valse a Ut il premio Pulitzer. La foto di Nick Ut ha raccontato la guerra del Vietnam più di molte parole, uno scatto autentico che contribuì a cambiare la percezione dell'opinione pubblica.