Forse il problema è l’abbondanza. Altrimenti non si spiegherebbe quell’abilità che noi italiani abbiamo nel mortificare tanta parte del nostro patrimonio culturale e della nostra tradizione. Probabilmente esso è così vasto che finiamo per trascurarne gli elementi più preziosi o darli per scontati. E questo vale in tutti i campi, dall’arte alla letteratura, dall’artigianato alla gastronomia. Naturalmente, vale anche per il vino. “Scoperto” più che “inventato” nel 1773 dall’inglese John Woodhouse, che rinforzò con un po’ d’acquavite l’antico perpetuum locale, il Marsala vanta indubbiamente una storia affascinante e un passato illustre. Dopo la “svolta italiana”, impressa da Vincenzo Florio nel 1832, questo vino fu per anni un gioiello della nostra enologia e un vero e proprio vessillo del made in Italy nel mondo. La sua fama e la sua diffusione raggiunsero dimensioni planetarie e per molti anni rimasero costanti l’incremento della produzione, la conquista di nuovi mercati e l’apprezzamento dei consumatori. Ma eravamo nel 1800.
Non parlate di liquorino. Oggi, invece, se chiedete in giro “cos’è il Marsala”, vi sentirete rispondere otto volte su dieci che si tratta di “un liquorino dolce solitamente presente sulle tavole imbandite per la colazione di Pasqua o per accompagnare i dolcetti della tradizione”. Lo Sherry e il Porto - vini che condividono con il Marsala la nascita nella cosiddetta “Sunbelt” (la “cintura” mediterranea del sole), la categoria enologica, la matrice britannica e l’impressionante longevità - sono universalmente considerati tra le più rinomate etichette del mondo. Il grande liquoroso siciliano, al contrario, è ancora alla ricerca di un’identità moderna e chiara, in grado di far dimenticare le ignobili versioni aromatizzate, prodotte e manipolate nel dopoguerra ovunque e da chiunque, che ne hanno rovinato l’immagine e pregiudicato la credibilità negli scorsi decenni. La prima normativa sulla produzione del Marsala è un decreto ministeriale del 15 ottobre 1931 (“Delimitazione del territorio di produzione del vino tipico di Marsala”), cui hanno fatto seguito il riconoscimento della Doc nel 1969 e, infine, la legge n. 851 del 28/11/1984, la “Nuova disciplina del vino Marsala”. Quest’ultima, in particolare, si è di fatto limitata all’abolizione (meglio tardi che mai) della discussa categoria dei “Marsala speciali”, al restringimento della zona tipica e all’affermazione dell’obbligo di produzione, affinamento e imbottigliamento all’interno del territorio a Doc. Ma, nel contempo, ha aperto le porte anche al Damaschino, varietà d’uva iper-produttiva e decisamente poco adatta alla realizzazione di vini potenti e strutturati. Insomma, questa nuova legge non è certamente bastata a ridare vero lustro a quello che dovrebbe essere uno dei vanti dell’enologia italiana.
Docg? Una modesta proposta. Allora, considerato che si parla sempre più spesso di una prossima Docg, sorgono spontanee alcune domande (purtroppo destinate, crediamo, a cadere inesorabilmente nel vuoto): non sarebbe forse il caso di far precedere una inutile (allo stato attuale delle cose) Docg da una seria revisione del disciplinare di produzione, che privilegi la qualità ottenuta attraverso una rigorosa selezione della materia prima, un abbattimento sostanzioso delle rese per ettaro (e per pianta!), una corsia privilegiata da dedicare alle uve chiaramente superiori per qualità intrinseca (Grillo)? Non sarebbe il caso che la revisione del disciplinare recepisca, pur nel mantenimento dell’identità vitivinicola ed enologica del vino, l’evoluzione delle tecniche di coltivazione e di produzione, prevedendo una riduzione all’essenziale dell’uso di mistelle (le mistelle sono mosti in cui la fermentazione è bloccata e la gradazione alcolica è indotta) e, soprattutto, da una riduzione dei mosti concentrati? Ancora: non sarebbe il caso che la revisione sottolinei il ruolo egemone del Marsala Vergine, magari rendendolo un mono-varietale da Grillo e limitando a quest’unica tipologia la Docg? Probabilmente in troppi non la pensano così. Probabilmente si preferisce fare le cose all’italiana e magari consentire a qualche oscuro personaggio – che con il vino c’entra poco – di pavoneggiarsi e riscuotere consensi, elettorali e non, per la semplice aggiunta di una “g” finale a una Doc che, così com’è, non è in grado di garantire la benché minima qualità e molto spesso (come ci dimostra la cronaca recente) nemmeno l’effettiva origine di un vino.
Produttori tenaci. I prodotti che troverete in commercio di Alagna, Arini, Cantine Mothia, Cantine Vinci, Caruso&Minini, Florio, Frazzitta, Marco De Bartoli, Martinez, Pipitone Spanò, i migliori marchi rappresentativi, offrono una realtà assai complessa e variegata. I produttori seguono con tenacia una linea di qualità senza compromessi e trainano una carretta sulla quale, tuttavia, molti altri si accontentano di vivere di luce riflessa o di trarre profitto da una tradizione che ancora (ma riteniamo per poco) riesce quasi a vendersi da sola. È chiaro che nel mondo del Marsala, come del resto in quello di ogni altro vino importante, c’è posto per tante interpretazioni, anche di livello qualitativo ben differenziato. Ma se realmente vogliamo che le nostre etichette e i relativi disciplinari tutelino e garantiscano le vere eccellenze enologiche, possiamo e dobbiamo fare molta più chiarezza. Dopo anni e anni di trucco pesante a base di aromatizzazioni scandalose, al Marsala serve ben altro che un nuovo superficiale intervento di maquillage.
Ecco il disciplinare di produzione
La zona tipica della Doc del Marsala si estende per quasi tutta la provincia di Trapani, esclusi i territori di Alcamo, delle Egadi e di Pantelleria. I vitigni ammessi dal disciplinare sono Grillo, Cataratto, Inzolia e Damaschino. A queste uve a bacca bianca, dalle quali si producono tutti i Marsala Oro e Ambra, si aggiungono il Pignatello, il Nero d’Avola e il Nerello Mascalese, uve a bacca rossa consentite soltanto per la produzione del Marsala Rubino (o Ruby).
■ Il Marsala Vergine si ottiene esclusivamente dalle uve a bacca bianca, con la semplice aggiunta di alcol e/o di acquavite di vino, escludendo tassativamente addizioni di mosto cotto e/o concentrato e di sifone. L’invecchiamento si deve prolungare per almeno 5 anni in legno (10 per il Vergine Riserva o Stravecchio) e il grado alcolico non dev’essere inferiore al 18%.
■ I Marsala “conciati” (preparati con l’aggiunta di alcol, mosto cotto e mistella) si diversificano in relazione al colore: oro (senza aggiunta di mosto cotto); ambra (con aggiunta di mosto cotto non inferiore all'1%); rubino (senza aggiunta di mosto cotto, ma ottenuti da uve nere ed eventualmente bianche con il limite massimo del 30%).
■ In relazione alla quantità di zuccheri presenti: secco (zuccheri inferiori a 40 grammi/litro); semisecco (zuccheri tra 40 e 100 grammi/litro); dolce (zuccheri superiori a 100 grammi/litro).
■ In relazione alla durata dell’invecchiamento: fine (maturazione non inferiore a un anno, di cui i primi 4 mesi non necessariamente in legno, con alcool superiore al 17%); superiore (maturazione in legno non inferiore a 2 anni e grado alcolico superiore al 18%); superiore riserva (maturazione in legno non inferiore a 4 anni). A corredo della classificazione “ortodossa”, si possono trovare in etichetta anche le seguenti sigle, vagamente nostalgiche: S.O.M. (Superior Old Marsala), G.D. (Garibaldi Dolce), L.P. (London Particular), I.P. (Italian Particular).