di Maurizio Iorio
Le eredità sono come la sabbia, c’è chi la sparge al vento, e chi ne fa clessidre. Chi le onora, e chi fa l’esatto contrario. Quando l’eredità è un patrimonio virtuale, e non economico, la successione trascende l’atto puramente notarile, e diventa un’operazione neo-filologico-religiosa. Essere Cristiano de Andrè non è facile, e non lo è mai stato. L’ombra dell’augusto genitore incombe come un macigno, e per non farselo cadere addosso bisogna avere le spalle larghe come Atlante. Cristiano c’ha messo dieci anni per far decantare il dolore e prendere il coraggio di affrontare un repertorio che è, a buon diritto, patrimonio personale e patrimonio dell’umanità. Checché ne dica l’Unesco.
Da giugno a dicembre 2009 De Andrè il giovane ha portato in giro per il Belpaese le canzoni-poesie del padre. C’era mezza Italia ad aspettarlo. Si è fatto supportare da pochi, giovani, e bravi turnisti (Luciano Luisi, Osvaldo Di Dio, Davide Pezzin e Davide De Vito) e ha affrontato una platea affezionata al limite dell’adorazione, ma severa come i maestri di una volta con i bambini bravi ma svogliati. C’era il rischio del fallimento, perché il confronto, soprattutto quello, poteva essere impietoso. E invece l’esame, se di esame si è trattato, Cristiano De Andrè l’ha superato a pieni voti. Inquietante la somiglianza della voce, un clone ante-litteram, e splendidi gli arrangiamenti, che hanno rinnovato, senza stravolgere, il più bel libro di canzoni della storia patria. In salita l’incipit, con due brani in genovese, ereditati da “Le nuvole”: “Megu Megun” e “A’ Cimma”. Gli ostacoli all’inizio, finita la salita il resto è in discesa.
“Ho ricevuto un’eredità, non potevo non testimoniarla, - ha detto De Andrè. “ Oggi, come fosse un passaggio di testimone, ho avuto il desiderio di portarle verso una direzione musicale più vicina alle mie corde. La scelta dei brani non è stata facile, ma ci sono canzoni che sento più vicine a me forse perché le ho vissute e viste scrivere, o forse perché mi ricordano intensi momenti personali”.
Solo undici i brani, dosati con la bilancia del farmacista, ma bastano per rispolverare la memoria, riattivare la speranza, e prender coscienza che ancora esiste un’Italia diversa. “Ho visto Nina volare” è struggimento dell’anima, “Se ti tagliassero a pezzetti” in stile Coldplay è tradizione e modernità a braccetto, “Quello che non ho”, bluesy alla Bubola, e “Fiume Sand Creek” che strizza l’occhio agli U2, sono pezzi d’arte appesi al muro della nostra storia. Se ai cori si fossero unite la sorella Luvi e Dori Ghezzi, avremmo pianto come vitelli. Come bonus, un bel dvd su e dentro il concerto, prodromo di un film che dovrebbe intitolarsi “Nel nome del padre”. E che aspettiamo con ansia. Il tour ripartirà il 6 febbraio da Torino.