Le vertenze in Sardegna


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Dal carbone all’alluminio, senza futuro

Intervista a Franco Barbi, segretario generale di Fiom-Cgil di Sulcis-Iglesiente alcoa_296

di Emanuela Gialli
(e.gialli@rai.it)

A Portovesme si arriva dall’aeroporto di Cagliari lungo la Statale 130. Si seguono le indicazioni per Iglesias, che, ad occhio nudo, sembra avere un territorio piuttosto vasto,. Poi per Carbonia. Lungo il percorso ottocenteschi insediamenti di miniere, ormai ovviamente dismessi. Tutto intorno vegetazione, macchia mediterranea, a tratti ulivi piegati, fisicamente, dal vento. E rocce rosse. Come nei canyons di Las Vegas, i Red Rock Canyons. Ma non sono rocce, è la discarica della miniera di Monteponi, nel territorio di Iglesias. Sono terreni, anche in parte collinari, intrisi di ferro, rame e magnesio. A un certo punto, in quel tratto che gli abitanti chiamano “panoramica”, si scorge il mare blu denso, con qualche onda arricciata in riva. Questa è natura incontaminata, pensa chi arriva a bordo della sua auto. Dopo pochi chilometri ecco le torri-ciminiere a strisce bianche e rosse, i silos dell’unico stabilimento che in Italia produce alluminio: l’Alcoa di Portovesme.

Qui incontriamo, di domenica, il segretario generale della Fiom-Cgil del Sulcis-Iglesiente, Franco Barbi. “Tutta l’area, da Iglesias a Portovesme, è a forte rischio ambientale”, ci dice Barbi.

Davanti all’insediamento di Alcoa c’è la centrale dell’Enel intitolata a Grazia Deledda. Sullo sfondo pale eoliche, installate dall’Enel un anno fa. C’è vento, ha piovuto da poco, ma si affaccia il sole.

Il cancello dello stabilimento è chiuso. “Per disposizione dei dirigenti di Alcoa. Altrimenti di domenica c’era solo la sbarra abbassata e si poteva entrare”, ci dice Barbi.

Dietro il cancello, le guardie giurate della sicurezza privata ci osservano, tra le bandiere delle Rsu e di tutti i sindacati uniti a testimoniare le proteste degli ultimi giorni.

Anche davanti alla centrale Enel sventolano i vessilli sindacali dei lavoratori delle società di appalto. Alla nostra auto si avvicina un vigilante: “Cerca qualcuno?”. “No –rispondiamo- siamo della Rai. Stiamo guardando”.

In effetti stiamo guardando il contrasto di questa isola stretta tra il potenziale di un’industria produttiva, remunerativa e proficua, che dà lavoro, rivelatasi negli anni inefficace, non risolutiva, deficitaria, e un ambiente incontaminato, unico, che rende ebbri di ossigeno e di purezza.

Lo stabilmento dell’Alcoa copre un’area di circa 7 ettari. Attualmente produce 1.500 tonnellate di alluminio l’anno. Al costo, stabilito dalla Borsa di Londra, di 1860 dollari la tonnellata. La produzione è rimasta invariata, nonostante i lavoratori siano stati nel corso degli anni dimezzati: da mille a poco più di 500. Poi c’è l’indotto. Ma venti anni fa i dipendenti erano arrivati ad essere circa 1.500 , più l’indotto.

Dal 1° aprile 1996 Il problema di Alcoa è l’approvvigionamento di energia elettrica. Quando l’insediamento prese corpo nel 1972, all’interno vi era una centrale elettrica autonoma che garantiva il processo produttivo senza interruzione, per le celle elettrolitiche. “Intorno al 1980-82 venne fuori però una legge che stabiliva che non si poteva essere produttori autonomi di energia e che tutte le centrali dovevano essere gestite dall’Enel”, spiega Barbi. “A quel punto siamo diventati dipendenti dall’Enel per la fornitura di energia essere produttori”.”Alcoa subentrò a Efim, dopo un commissariamento, ad aprile del 1996, solo dopo che il governo perfezionò il contratto per la fornitura di energia per dieci anni a prezzi in linea con la media europea”, ricorda Barbi della Fiom.

Il padre di Barbi lavorava alle celle elettrolitiche. Poi entrò il fratello. Lui, Franco, ci lavora da venti anni. Racconta: “I nostri problemi iniziano nel 2005, quando si interrompe la fornitura di energia”. “L’Alcoa doveva prendere l’energia dal mercato a prezzo pieno”, spiega e questo, anche per effetto del protocollo di Kyoto, per l’abbattimento dell’anidride carbonica, ha comportato un aggravio nei costi di circa 20 milioni di euro l’anno.

“Da quel momento, i governi che si sono succeduti, di Prodi e di Berlusconi, hanno provato a mettere in campo la legge sulla competitività che si è rivelata un nulla di fatto”, sottolinea Barbi. “Alcoa continuò a utilizzare le tariffe stabilite dalla media europea e per quello viene multata dalla Ue per 300 milioni di euro. Più esattamente viene multata l’Italia, per aver dato aiuti di Stato ad Alcoa e il governo a quel punto, proprio quando la società americana chiama le rappresentanze interne dei lavoratori per informarle che lo stabilimento chiude, esige il pagamento della multa. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”.

Da sabato le celle elettrolitiche accese sono 297 su 300. “Queste sono aziende che si muovono sulla base di forniture e introiti certi. Che prospettive avrebbe Alcoa, in assenza di un piano industriale di ampio e lungo respiro, almeno per i prossimi 15-20 anni?”, si e ci chiede Barbi. “Il sottosegretario allo Sviluppo economico ha garantito che ci sarà l’autorizzazione da parte di Bruxelles della super-interrompibilità (di energia elettrica, ndr) per i prossimi tre anni ma di concreto attualmente non c’è niente. E poi tre anni sono pochi per una prospettiva industriale”, aggiunge Barbi della Fiom. Che sembra proprio di comprendere i motivi dell’abbandono dello stabilimento da parte dell’americana Alcoa.

“Non crede però che gli investitori stranieri in passato siano venute in Italia anche perché sapevano che le aziende private venivano aiutate. Poi l’Italia, per l’alto debito pubblico accumulato, non è stata più in grado di aiutare le imprese che hanno così cominciato a lasciare il nostro Paese, come d’altronde sta facendo la Fiat, che nasce in Italia e adesso va all’estero, mentre gli imprenditori stranieri tornano all’estero?”, chiediamo a Barbi. “Forse ha ragione, in qualche caso è successo. Ma al sottosegretario De Vincenti ho chiesto se si sa quanto costerà al governo il mantenimento degli ammortizzatori sociali per i dipendenti di Alcoa? Per me costerà di più la cassa integrazione, che trovare quegli strumenti politici per rendere le tariffe competitive e per trovare le condizioni perché si possa fare azienda”.